domenica 27 marzo 2011

Pier Paolo Pasolini






La decisione di accostarmi ad un tema certo inconsueto e controverso come questo trae origine da una sincera e profonda ammirazione per quello che è internazionalmente considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX secolo: Pier Paolo Pasolini ultimo vero genio umanista,dotato di un'eccezionale versalità culturale ,ma soprattutto coerente,imparziale,lungimirante. Sfortunatamente è raro che a scuola si trovi il tempo per approfondire  l'opera di un personaggio così problematico,dissacrante,un attanto osservatore della società, spesso contestato per la durezza dei suoi giudizi e la dramatica crudezza delle sue vicende personali. Ritengo invece che la sua testimonianza potrebbe rivestire un ruolo fondamentale nel percorso di formazione di uno studente, perchè i giovani sono stati la vera passione, intellettuale e fisica, nell'esistenza del grande poeta, romanziere, gionalista e regista. Passione che visse privatamente, in modo esasperato ed incredibilmente vitale, e che lo condusse ad una morte prematura e sconcertante. Riflessioni e immagini sui giovani – anche se Pasolini odiava questa generalizzazione, che gli sembrava “un residuo romantico, dolciastro, e adulatorio”- trovano ampio spazio nella sua poetica, a partire dai romanzi, dai film e dai saggi. Ma il suo rapporto con i giovani non è stato nè facile nè univoco nè uguale nel tempo; essi restano tuttavia l'oggetto prediletto, il caso esemplare per interpretare il mutamento sociale e, alla fine, scagliandosi contro tutto ciò che egli riteneva inautentico, ha lasciato dietro di sè importanti interrogativi e insegnamenti.
La sua ricerca ha inizio nel 1955, con l'uscita del romanzo “Ragazzi di Vita”, una storia tragica che ha per protagonisti degli adoloescenti appartenti ad un basso ceto sociale nella Roma del dopoguerra, quando la miseria era più tiranna che mai. La vicenda ruota attorno alla figura del Riccetto che, dopo anni passati con gli amici del quartiere a scovare e rivendere il metallo trovato nell' immondizia e altri problemi di natura simile, finisce in carcere dove inizia il suo processo di “depurazione” per mano della socità ; quattro anni più tardi esce  “Una Vita Violenta”, che vede nuovamente coinvolti dei piccoli borgatari, che cercano una ragione di vita tra furti, prostituzioni e comportamenti violenti ed animaleschi, che Pasolini aveva modo di ossevare dalle finestre di casa sua a Monteverde. Questi ragazzi del mondo proletario romano sono privi di punti di riferimento, primo fra tutti quello della famiglia, sono brutali, forse, ma a modo loro onesti e fieri della propria condizione. Non conoscono ancora l'invidia per la borghesia (che emergerà solo successivamente), ma esacrano la noia. Nei loro confronti l'autore compie una vera e propria “dichiarazione d'amore” (come ebbe a dire Gianfranco Contini, grande critico stilistico e letterario).
In questo momento storico Pasolini ancora avverte la necessità di compiere una distinzione fra giovani “lavoratori”, “borghesi” e “sottoproletari”. Questi ultimi sono la voce e la rappresentazione di una realtà, seppure violenta, incontaminata, minacciata dall'avvento della società consumistica. Questa “invasione” è messa in evidenza nel percorso di responsabilizzazione di uno dei personaggi del primo romanzo, il Riccetto, che, nel primo capitolo, è capace di gettarsi dalla barca in mezzo al fiume per salvare una rondine che stava affogando e che, invece, al termine di un cammino di redenzione dettato dai canoni della società, pur commuovendosi, non esita a lasciare che il piccolo Genesio anneghi nell'Aniene, considerando la situazione troppo rischiosa per intervenire. Se il Riccetto delinquente era in grado di provare un reale slancio di compassione e di pietà, il Riccetto consapevole diviene una figura piatta, egoista, meschina. Troviamo qui numerosi punti di contatto con uno dei romanzi cardine del XIX secolo, “I Miserabili” di Victor Hugo, che introdusse nel Romanticismo l'elemento del grottesco, come chiave per dar voce alla vita vera. Come in Pasolini, la distinzione fra classi sociali non corrisponde a quella fra Bene e Male, che poi è assai labile; al contrario il personaggio di Jean Valjean, ergastolano di umili origini, in seguito all'opera di redenzione da parte di Monsignor Bienvenu, è capace di atti di estrema carità e




generosità, mentre il poliziotto Javert incarna “tutta la cattiveria della bontà”, poichè, seppur integerrimo, è incapace di provare pietà e comprensione. E tuttavia, per entrambi gli autori, gli umili sono descritti a tinte forti per il timore che la loro anomalia non risulti abbastanza, non
convinca. Entrambi mirano con esasperazione a sottolineare questa condizione subumana,      proiettando su di essa una luce sentimentale, poetica.
Questa differenziazione si dimezza nel '68, quando esplode la contestazione giovanile in Italia. I giovani capelloni, secondo Pasolini, sono “brutti” ed “indistinguibili”, arriva a definirli dei mostri dall'aspetto fisico terrorizzante o fastidiosamente infelice, “maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà”. Ma è soprattutto nel “ PCI ai giovani !” * , una poesia scritta in seguito allo scontro con le forze dell'ordine presso la Facoltà di Architettura a Roma e pubblicata su “L'Espresso”, che lo scittore esprime la sua massima riprovazione, affermando che gli studenti sono dei figli di papà, che la loro rivoluzione è fasulla. Si pone invece a favore dei poliziotti,  essi veramente figli di poveri, anche se resi “sicari” dal mondo del potere. Si tratta di una posizione assai scomoda, controcorrente, che suscita un grande scandalo, ma che ha come unico fine quello di provocare i contestatori, affinchè nasca in loro una coscienza critica.
Proprio negli anni Settanta dunque, è quando avviene la rottura definitiva, quella “cessazione d'amore”, che provoca in Pasolini disillusione e sofferenza. Persino i giovani delle classi povere, ormai, sono diversi rispetto a come erano una quindicina di anni prima. “Sono diventati tristi, nevrotici, incerti, pieni di un' ansia piccolo borghese; si vergognano di essere operai, cercano di imitare i figli di papà”.
L'omologazione culturale è dilagante ed inarrestabile. La suprema considerazione sui giovani disumanizzati arriva nel 1975 con “I Giovani Infelici”. Essi non hanno nessuna luce negli occhi e i loro tratti sono spaventosi, la stereotipia li rende infidi: un loro silenzio può precedere una disperata richiesta di aiuto come una coltellata. Borghesi e Proletari, maschi e femmine sono tutti sullo stesso piano. La loro infelicità è la punizione che devono scontare.
Perchè ? Perchè sono portatori di una colpa gravissima, quela dei loro genitori, “che si sono resi responsabili, prima, del fascismo, poi, di un regime clerico fascista, fintemente democratico, e , infine, hanno accettato la nuova forma di potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine”.
Come nella tragedia greca, le colpe dei padri ricadono sui figli e non importa se essi siano buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono pagare. Tuttavia, nel mondo arcaico, trovano una forma di assoluzione: per Oreste, colpevole dell'omicidio della madre Clitennestra per vendicare il padre Agamennone, la fine della pena è sancita dall'Areopago e dalla clemenza della dea Atena. I giovani di Pasolini, invece, non sono perdonati, poichè l'aver ereditato il peccato dei padri li giustifica solo in parte, per il resto sono essi stessi responsabili di ciò che c'è di “brutto, repellente, disumano” in loro, non ci sono figli innocenti. Di qui la sua “condanna”, quel qualcosa di “immenso e di oscuro” che c'è da rimproverare loro.
Ma una speranza di salvezza, “il sogno di una cosa”, per i figli c'è; questo è l'insegnamento di cui dovremmo fare tesoro.
La sola possibilità di riscatto sta nell' acquisizione critica della vera cultura, che è libera dagli schemi e dagli stereotipi, nell'abbattare i moralismi e le convenzioni ma soprattutto nell' esprimersi, anche confusamente, come scopre Davidson, il giovane protagonista de “Il Padre Selvaggio”, perchè esprimersi significa guarire.

*  (Riporto in parte il testo del “PCI ai Giovani!”)

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

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